Crash test

tramontoL’autobus se lo stava portando via in quel pomeriggio inoltrato con il suo fagotto di pensieri tristi e un peso nel cuore. Se lo trascinava alla stazione e da lì in un’altra città, tra altra gente, tra altre esistenze, come la sua. L’autista maldestro metteva a dura prova il suo equilibrio, diviso tra uno zaino ingombrante e una valigia scura come il fondo della notte che avanzava lenta da est. Aveva lasciato il posto a sedere a un’anziana signora che si era accomodata senza guardarlo negli occhi, con la sollecitudine di chi non avrebbe mai detto ‘grazie’ per un qualcosa che le sarebbe spettato comunque.
Pioveva da giorni e l’asfalto luccicava di lustrini quasi avesse messo il vestito da sera, ribaltando le insegne colorate dei bar e dei negozi semivuoti; e ora, d’un tratto, nel cielo gonfio di ombre piene di malumore si era fatta strada una lingua di sole che volgeva al tramonto; caramellava di luce le cime dei tetti e i piani della case più alte che parevano ora finanche più alte per godersi quei tiepidi raggi obliqui, sparati in ogni direzione da un fuoco divampato senza controllo. La città era divisa in due. Sotto, il grigiore confuso dell’andirivieni distratto di gente indaffarata sulla via di casa e, in alto, sopra la riga di luce tracciata con il compasso, una città eterea, dipinta di giallo e d’arancione, come una promessa strappata a un cuore indifferente, abitata da semidei dai sogni intessuti di fili d’oro e di rugiada.
Accanto a lui, le persone continuavano a salire e scendere dal bus come per recitare il copione quotidiano di una città qualunque; occhi, visi, espressioni tutte eguali, ripetute all’infinito in un’eco di solitudine senza pace; gli stessi gesti, le stesse parole, gli stessi oggetti tra le mani.
Poi il bus abbandonò la piazza e si scapicollò per la discesa a senso unico deciso ad arrivare. Il respiro della stazione ormai era a pochi passi; si poteva sentire l’odore dei treni, dell’elettricità tra i binari, si poteva ascoltare con il vento buono l’altoparlante logorroico a tentar di mettere ordine nel caos di chi parte e di chi arriva.
Lui alzò per un attimo lo sguardo verso il cielo attraverso il finestrino ricamato di gocce di pioggia: un arcobaleno imponente stava sgomitando tra i palazzi troppo stretti per lui. I suoi colori erano così nitidi da poterli contare a uno a uno ed erano tanto compatti da poterli attraversare come un ponte proteso tra le facciate stupefatte, se solo chi l’avesse visto dalla propria finestra vi si fosse affidato a piedi nudi e a cuore puro. Lui rimase a bocca aperta. Non ne aveva mai visto uno così grande, così vicino e all’interno della città. Si girò verso una signora che teneva stretta a sé una bambina e le disse: “guardi, un arcobaleno!” ma le sue parole furono masticate dal motore su di giri del bus mentre la donna lo guardò con sufficienza avendo creduto volesse solo attaccare discorso. Allora lui si rivolse alla bambina: “guarda che arcobaleno c’è là fuori” e lo indicò per un attimo sfidando il suo equilibrio già precario. Ma la piccola lo squadrò sospettosa come solo i bambini sanno fare quando vedono qualcosa e non la comprendono. Nessuno si era accorto di quella meraviglia. Nessuno. Vicino a lui solo volti vuoti, abbozzati da un disegnatore sbrigativo e senza talento, manichini indecifrabili prima del crash test finale.
Il bus svoltò un’ultima volta andando a nascondersi sbuffando sotto la pensilina della stazione. L’arcobaleno era nel frattempo sparito, riassorbito dalla notte trionfante, mentre il cielo si era fatto solo un po’ più buio e un po’ più triste.

44 pensieri su “Crash test

  1. Quante semplici e spettacolari bellezze perdiamo di ammirare perchè presi da mille altre cose! Che peccato!!
    Complimenti per il racconto: le descrizioni sono superbe.

  2. Proprio un bel racconto! Belle le immagini che arrivano al lettore, dal grigio del cielo ai colori dell’arcobaleno, che appaiono veloci per poi scomparire di nuovo dietro alle nubi e alla malinconia.Tristezza infinita per una bambina che non riesce ad apprezzare la bellezza di un arcobaleno.

  3. E che dire della bimbetta priva di sovrastrutture che coglie e comunica innocentemente e scuote l’indifferenza generale!!!
    Deliziosa…

  4. La bellezza delle cose la si interpreta con lo stato d’animo personale…cogli l’essenza di una realtà che chi ha provato comprende.
    Bella la perspicacia che comunica il brano…introspettivo e analistico e al contempo non pesante!!!

  5. bella prosa poetica – mi ha ricordato certe ispirate digressioni di steinbeck – funzionale e particolarmente efficace nel comunicare sia la meraviglia che la capacità di meravigliarsi. in tal senso, l’arcobaleno è solo la punta dell’iceberg, il punto di arrivo di una visione stereoscopica e minuziosa del mondo che avvolge il lettore riga dopo riga per poi collassare nel “solo” in calce al brano. un unico appunto: in “ripetute all’infinito come in un’eco” forse si può togliere il “come” (leggendo suona ripetitivo essendoci già il “come per recitare” poco prima).

  6. Molto bello, scritto benissimo. Mi piace come viene messa in risalto la cecità delle persone che non sanno più cogliere la bellezza delle cose naturali, semplici. Complimenti.
    Ciao, Patrizia

  7. Un esercizio di colori e sensazioni che si mescolano tra un tripudio di metafore e immagini.
    Si legge con lo stesso ritmo cher impiega il bus a raggiungere la stazione. da prima lento poi man mano sempre più veloce.

  8. La felicità è un arcobaleno che appare per un istante nel cielo, così come le piccole cose della vita di tutti i giorni: bisogna saperle cogliere,
    Ciao
    Andrea

Lasciami un tuo pensiero