Il grande Chiarore

genteAvevo proprio bisogno di una boccata d’aria, così sono uscito. Aperto il portone di casa mi ha investito quel Chiarore accecante che da qualche mese a questa parte si spande dal cielo come un lenzuolo opaco luminescente, costringendo tutti a camminare a testa bassa o a portare gli occhiali da sole fin quasi al tramonto. Inquinamento atmosferico, hanno detto, pulviscolo residuo di non so quale processo chimico degradato. Nulla di preoccupante comunque, hanno assicurato, perché tutto sarebbe sotto controllo; per quanto abbia letto da qualche parte che sono in aumento i casi di fotofobia e di emicranie a grappolo. E anche se le foglie dei pochi alberi rimasti sui viali sono diventate di un verde smunto, quasi di un bianco esangue, a questo fenomeno strano nessuno sembra volerci far troppo caso e i più si sono già abituati.
Inforcati gli occhiali da sole, deciso a lasciare la depressione a casa, dove mi aveva assillato tutta la notte, mi sono infilato tra la gente. È una cosa che normalmente detesto, ma la forzata vicinanza di altre persone che nulla hanno a che fare con la mia vita, mi permette a volte di raschiarmi di dosso l’angoscia del vivere come si potrebbe fare con la muffa da un muro. Mi sono messo a camminare a passo lento, dondolando ritmicamente gambe e braccia come a cercare una mia armonia. Ma ho finito per sembrare un buffo automa caricato a molla o un artista di strada senza cervello e la gente ha preso a fissarmi. Ho smesso subito. Mi sono allora concentrato su passi, facendo finta che mi piacesse, ma ero troppo distratto da tutte quelle facce antipatiche e arcigne che mi venivano incontro per poi scansarmi all’ultimo momento e sfilare via. Persone che sapevo bene non avrebbero fatto nulla per me, neppure se in quel momento fossi stramazzato al suolo in preda a un qualche malore lancinante. A nessuno di loro importava quello pensavo o quello che facevo. Almeno da quando avevo smesso di frequentare il mio vecchio giro, costretto a lavorare in un’altra città. Gli amici di allora avevano creduto, chissà perché, che fossi partito per l’estero, che me ne fossi andato per sempre. Non era bastato telefonare o incontrarli per convincerli che nulla in fondo era mutato; che abitavo sempre là, sull’erta de’ Lunghi, nella chiesa sconsacrata di San Beniamino, che il mio brandy era sempre buono e la mia compagnia non peggio di tante altre. Macché. Per loro avevo cessato semplicemente di esistere. Tant’é che ogni volta che qualcuno m’incontrava mi chiedeva se ero finalmente tornato e quando purtroppo sarei dovuto ripartire. E io giù a spiegare che non ero mai andato via e che se passavano da casa a citofonarmi sarei sceso per stare insieme a loro, come sempre, a fare le solite quattro chiacchiere. Sapevo che quando andavano a cena parlavano di me, ricordando quant’era stato bello stare tutti insieme e come, purtroppo, i vecchi tempi non ritornino mai. Dopo un po’, avevo smesso di cercarli anch’io, facendo finta, a mia volta, che pure loro non fossero mai esistiti. Anche se il mio cuore sapeva bene che non era affatto cosi.
La gente ora mi veniva incontro sul marciapiede sempre più minacciosa, come tante gocce gelide di pioggia a picchiettarmi sulla faccia. Mi guardavano male, qualcuno mi diceva persino qualcosa di scortese che non capivo, e allora mi sentii soffocare. Mi ressi a un palo della luce, perché mi sentivo mancare. Un merlo proveniente dal tetto di fronte mi sfiorò appena per andare a sbattere contro il muretto di cinta del fiume. Se ne stette lì, stordito, tra le cassette vuote di frutta e gli scatoloni piegati di cartone, ad agitare le ali in modo scomposto. Vidi che i suoi occhi erano glauchi, bruciati dalla troppa luce. Poi si riebbe. Si rimise sulle zampe incerte, cercando con le ali aperte un equilibrio che tardava ad arrivare, saltellando confuso un po’ qua e un po’ là sul porfido rossiccio, come non riuscisse ad orientarsi. Era diventato cieco. Poi spiccò il volo andando a zig zag nel cielo latteo, senza troppa convinzione, più per abitudine che per necessità: sembrava uno straccio scuro portato via dal vento.
Mi sono stretto il bavero della giacca per ripararmi da un improvviso brivido di freddo; mi sono confuso nuovamente tra la folla cercando di non pensare a nulla. Facendo finta che tutto andasse per il meglio e che quello, in fondo, fosse un giorno come un altro.

46 pensieri su “Il grande Chiarore

  1. Einstein diceva che la creatività nasce dall’angoscia, come il giorno dalla notte oscura. Allora, considerando i tempi che viviamo, saranno tempi di grandi scoperte illuminate… Io mi accontenterei di calmare la mia anima continuando a scrivere e leggere racconti reconditi come questo. La scrittura è vita. Contaminiamoci.

  2. Leggo ora i commenti… Ecco, anche io avevo subito pensato all’atmosfera di quel Saramago (senza voler esagerare 🙂 , e anche a una certa fantascienza che divoravo da ragazza, e poi al film ‘il sesto senso’, non so se l’hai visto.. da cui l’impressione che il tuo personaggio fosse morto senza saperlo!
    In quanto a Zafòn.. TRE libri?!? Mi son persa qualcosa??

    • La mia intenzione era proprio quella di creare un personaggio al limite, rarefatto, diafano, ridotto dalle proprie elucubrazioni a diventare un fantasma di se stesso, pieno di fobie e disadattato rispetto a un ambiente ostilmente degradato.
      (Zafòn di libri ne ha scritti sette, credo, e appartengono a due serie, Il Cimitero dei Libri Dimenticati e La Trilogia della Nebbia. Autore molto interessante).

  3. Il buonsenso purtroppo credo sia un po’ orfano, come le sconfitte. Senza ombra di dubbio la scrittura non salverà il mondo, ma ci alleviera’ di sicuro dalle sofferenze. Il freddo che spesso ci pervade l’anima, come ci hai disegnato tu, può essere scaldato con l’umanità di storie di vita vissuta o creata. Ciao e buona vita

  4. Ho pensato fin dall’inizio a Cecità di Saramago, non so se ti ha ispirato.
    L’atmosfera è la stessa, l’ansia di capire l’hai trasmessa anche tu in poche righe.
    Il romanzo ha qualche tratto di ottimismo, non tutti sono ciechi!

    • Saramago è senz’altro uno dei miei autori di riferimento, ma non pensavo a lui. Un’atmosfera simile l’ho ritrovata invece in qualche altro testo che ora non riesco a meglio ricordare. Ci devo pensare e spero proprio mi venga in mente. Ti saprò dire. 🙂

  5. Comunque in futuro, pochi dominatori condurranno tutto il resto del genere umano di fare una vita che non assomiglierà più a quella odierna.
    In cambio di tecnologia cambieranno sogni e morali. Sarà migliore?
    Non credo. Chiedilo al merlo….
    Ciao.
    Grazie del bel racconto.
    A.

    • Il mondo, grazie alla tecnologia, sarà migliore sotto tanti aspetti, ma rischieremo di pagarla (troppo) cara.
      Il buon senso non fa rima con profitto e l’umanità nel suo complesso non sa essere lungimirante.
      Grazie per il tuo commento.

  6. Molte volte ci dicono che è tutto a posto, che non dobbiamo preoccuparci, che è meglio confonderci ai tanti per non perdersi. Un pò come alzare al massimo il volume di una musica per non sentire quelle parole che ci potrebbero anche svegliare. Hai ragione, si alza il bavero della giacca ma, in fin dei conti, si continua a sentire un grande freddo nell’anima.

  7. A volte basta poco per credere qualcosa che l’immaginario crea. Ma forse il fatto che il povero merlo sia diventato cieco, significa che il mondo è cambiato e non è più quello di prima. Anche la voce narrante se ne accorge e cerca di mimetizzarsi tra la folla. Non ci riesce, perché è diverso e i diversi si riconoscono e sono inconfondibili.

  8. Che siano gli occhiali da sole e l’aria mesta e scontrosa a fare in modo che la gente si mostri scontrosa? Spesso si attribuiscono agli altri gli stati d’animo propri…quasi in una sorta di gioco degli specchi!!!
    Cmq bel pezzo molto introspettivo e coinvolgente!!!

  9. Un grande chiarore “sbatte” al pari di un fitto buio.
    E’ un frammento che chiunque può incastrare in qualche suo giorno: cambierà il luogo, cambieranno gli amici e al posto del merlo potrebbe esserci un gatto ma alla fine il bavero della giacca lo tiriamo sù un po’ tutti.
    Bel post.

    • Grazie Nicola.
      Sono sempre difficili da scrivere questi pezzi. Non per la loro costruzione in sé, quanto piuttosto per la loro accettazione in lettura.
      Trasmettono infatti negatività ben al di là delle intenzioni di fondo e il ‘retrogusto’ che lasciano finisce per cancellare i piani sottostanti di lettura.
      Mi fa molto piacere, quindi, che ti sia piaciuto.

  10. che triste… normalmente l’uniformità di pensiero rende tutto grigio… qui c’è troppa luce ma, forse, è questo che rende uniforme tutto e tutti rendendo ciechi ad una visione più distinta del mondo e di noi stessi

  11. depression spinta? che triste questo tuo racconto… senza quel finale a sorpresa che solitamente ci fa sorridere o ridere di gusto. Spero di rileggerti presto più allegro… ciao!

    • In realtà non volevo scrivere un racconto triste, tutt’altro, anche se poi l’effetto potrebbe anche essere quello, non lo nego. È la storia di un personaggio (che non va identificato nell’autore anche se il protagonista narra in prima persona) che in un tempo ‘futuribile’ parla della sua vita presente e del suo ‘scollamento’ dal quotidiano. E’ un flusso di immagini, una concatenazione di fotografie gelide e asciutte, in bianco e nero, cupe e ostili forse, ma non tristi.

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