Jam session

jam sessionC’ero già passato qualche altra volta davanti a quella baracca in piena campagna e avevo sempre pensato fosse abbandonata. Quando mi dissero che Klipp Madderfigg era in città per una jam session con Lorraine non mi parve vero di potervi partecipare. Mancava un basso e qualcuno aveva suggerito il mio nome: così il mio amico Valentino aveva combinato. Quando arrivai là sentii che già stavano suonando. Aprii la porta, un pannello di compensato su un telaio di ferro rugginoso, e un potente riff di heavy rock mi investì in pieno. Rimasi sulla soglia immobile come preso alla sprovvista. Madderfigg, era di spalle e stava suonando la sua Stratocaster amaranto di faccia al mastodontico Marshall facendolo andare in larsen. Distante, dietro a una siepe di rullanti, tom-tom e una foresta di luccicanti Zildjian e chissà cos’altro, un massiccio ragazzo afroamericano, calvo e gli occhiali da sole a specchio, batteva un ritmo forsennato e trascinante. Dalla parte opposta, una ragazza con un cilindro in capo, si divideva tra due tastiere scolpendo il ritmo con un suono crudo e graffiante. Era Weg, la riconobbi subito; cercai di incrociare il suo sguardo per salutarla ma non alzò mai la testa. Lo spazio lì dentro era sorprendentemente immenso e le luci soffuse creavano l’atmosfera suggestiva di un concerto live. Un piacevole e febbricitante odore di cose elettriche serpeggiava nell’aria. Madderfigg si girò e mi vide. Fece un leggerissimo cenno con il capo che forse era un saluto e subito dopo rovesciò all’indietro i capelli biondi e lunghi lasciandosi andare a una legatura velocissima che mi ricordò il Jimmy Page dei giorni migliori. Dalle foto me lo ero immaginato più basso mentre invece superava il metro e ottanta; il viso era affilato, alla Patti Smith, avvitato su un corpo magro e ossuto che appena appena si muoveva attorno alla chitarra che fu di Clapton; le labbra parevano il risultato di una coltellata secca sul volto pallido di un malato e il naso affilato e piatto reggevano due occhialini tondi a cerchiare occhi scuri e nebbiosi; l’aria era assorta di chi abita un altro mondo. Avevo letto che era molto introverso, di pochissime parole, scontroso quanto bastava; se proprio gli si voleva parlare era meglio rivolgesi a Weg che faceva malvolentieri da intermediaria. Entrai facendomi coraggio. Poter suonare con un chitarrista di fama mondiale era un’emozione indicibile. Posai la custodia del Rickenbacker, delicatamente, come per non far rumore, trovando un posto accanto a uno dei tre amplificatori da basso che avevo notato, proprio vicino a Madderfigg, ed estrassi lo strumento. Mi pentii di non averlo accordato a casa perché ora non c’era più modo di poterlo fare. Inserii il jack con il cuore che mi batteva a mille. Nel frattempo Weg aveva introdotto un bellissimo blues, senza nessuna soluzione di continuità con il pezzo precedente. Gli occhi blu le brillavano da sotto un caschetto di capelli viola, mentre la sigaretta pendeva storta da un lato con più cenere attaccata che tabacco. Aveva una stellina tatuata su una guancia che si allontanava e si avvicinava al viso ogni qualvolta vi sbuffava dentro ripetendo con la voce le note vibranti dell’Hammond. Lei e Madderfigg comunicavano guardandosi negli occhi e sembravano un solo strumento. Per fortuna il basso era accordato e trovai subito un’intesa con quei magnifici professionisti. Le dita sulla tastiera presero ad andare da sole avendo deciso di immergermi in quella musica totale lasciando che fosse lei a suonare per me: una sensazione inebriante, trafitto com’ero da onde sonore che mi avevano trascinato in un’altra dimensione. Dopo circa mezz’ora si unì a noi Mark ‘Bigfish’ Lorraine, il mitico sassofonista gallese degli Afterrain. Entrò senza salutare nessuno, a capo chino, mettendosi a suonare come fosse stato presente fino a quel momento; e la jam session divenne indimenticabile. Ogni tanto Madderfigg mi fissava senza espressione. Non capivo se per lui stavo girando bene oppure no, ma non era quello il momento per porsi una domanda simile.
Ed erano le due di notte quando, dopo sette ore di musica non stop, un unico flusso senza pause, Madderfigg si fermò di colpo per sostituire il mi cantino che si era spezzato durante un assolo. Il silenzio improvviso che si creò fu irreale e imbarazzante. Approfittai di quel momento per avvicinarmi a lui: gli dissi in inglese che lo ringraziavo moltissimo per avermi permesso di suonare insieme a loro. Lui mi squadrò quasi fosse la prima volta che mi vedeva; strizzò gli occhi per mettermi a fuoco e quindi, staccando in malo modo il jack dal Marshall, sbraitò in cockney: «Sono venuto qui per suonare, non per parlare». E se ne andò.

30 pensieri su “Jam session

  1. Un bel momento di rock, avvincente e sudaticcio. La cosa più incredibile (della realtà, il racconto è perfetto così) è che spesso sono i musicisti senza fama né valore ad essere così bizzosi e lunatici, più che i grandi artisti internazionali.

  2. Ops …ho definito reale il silenzio…un lapsus…perché la musica che hai descritto mi è entrata dentro…mi pare di sentirla realmente (e non mi drogo…giuro!)

  3. Fantastico…il racconto è bello rock…tosto il finale…certo che chi parla con la musica trova superfluo il ciao, grazie e varie…ma a volte servono anche questi…
    “Il silenzio improvviso, reale ed imbarazzante” probabilmente non era così anche per il genio della musica…A me piace il silenzio…a me piace la musica…a me piace chi è sinceramente scontroso (come me!)…
    Ciao!

  4. Vedo che sei un esperto di musica con tutti quei riferimenti a strumenti e gesti. Ilpost è un crescendo musicale come la musica che hai immaginato che quelle persone sonassero. Come la musica cessa, anche il racconto si tronca di netto.
    Interessante prospettiva è quella che hai costruito.

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