Un dono del cielo

pesci-rossi-su-carte-sensibiliLa fortuna di Poggio Nesto arrivò con una giovane coppia di australiani; quel pomeriggio erano davvero sbronzi quando sbagliarono strada. Ma una volta sulla collina capirono che lì avrebbero trascorso tutto il resto della loro vita. Comprarono cento piante di vite da scaldare a quel sole gentile e in poco tempo, grazie alle alchimie del vecchio enologo del paese, trovarono il giusto compromesso tra sapidità e bouquet per quella terra scura come il fondo di un pozzo. E fu il successo. L’azienda richiamò da tutta la zona maestranze esperte e nuova vita fu iniettata tra le vie di pietra brulla dell’antico borgo.
«Deve riaprire la chiesa» gli comunicò il Vescovo abbozzando un sorriso. «Non vorrà mica lasciare tutte quelle povere anime senza la parola del Signore?»
Don Terenzio si stava martoriando il crocifisso che pendeva lucido dall’abito talare: non sapeva cosa dire, sicché si limitò a sbarrare gli occhi sorprendentemente azzurri. «Monsignore, con tutto il rispetto che ho per Lei» ebbe poi il coraggio di fiatare facendo un impercettibile passo in avanti «se mi manda lassù per la storia di quel ragazzino, guardi, Le assicuro, è tutta una montatura, non è vero nulla, posso spiegare… »
«Caro don Terenzio» proseguì il Vescovo come non avesse sentito. «È solo il campanile che è in rovina, il resto avrà bisogno di una semplice ripulita. Ho già fatto contattare per lei una pia donna che l’aiuterà come perpetua. Insomma, ho necessità che della cosa se ne occupi una persona…» e qui cercò un’espressione che fosse felicemente maliziosa «diciamo… piena di vigore, proprio com’è lei.» Quindi prese il prete sotto braccio e delicatamente l’accompagnò verso l’uscita. In un attimo Don Terenzio si ritrovò nel corridoio dalla volta affrescata, con il bagliore della facciata rinascimentale del Palazzo Ducale che gli rimbalzava sulle spalle. Il Vescovo alzò una mano ieratica in una sorta di benedizione mal riuscita: «Lo prenda come un dono del Cielo» gli disse sibillino, e gli chiuse la porta in faccia.
Il giorno dopo, don Terenzio era in macchina diretto a Poggio Nesto. Ci vollero quattro ore buone e un centinaio di curve per arrivare fin in cima e quando entrò nella piazzola si era fatta già sera; era sicuro di aver perduto lo stomaco da qualche parte nella panda. Fece un paio di ampi respiri e poi scese. La pieve era antica. Il Vescovo aveva ragione: era in discrete condizioni, tranne il campanile che doveva aver patito un bombardamento di troppo. Entrò in chiesa, con circospezione. La luce della luna filtrava dal rosone e l’aria era irrespirabile per l’odore di chiuso e la polvere imperante. Da un rapido inventario c’era però ancora ogni cosa: le statue dei santi, i dipinti alle pareti, i ceri consumati, le panche in buon ordine. In sacrestia trovò persino tutti i paramenti sacri e nel tabernacolo la pisside opaca con dentro ostie rinsecchite. Sembrava che la chiesa fosse stata abbandonata all’improvviso durante una messa. Appena scorse la porticina della cella campanaria cercò di aprirla. Era bloccata. Spinse con tutte le forze fino a quando le macerie che la fermavano non si spostarono. Era buio e non si vedeva niente se non il cielo nero bucato di stelle. Si spostò verso il centro del campanile e così facendo perse l’equilibro: si appoggiò maldestramente alla porta dietro di lui che sbatté con violenza. La vibrazione sui muri fece scricchiolare l’intera struttura, con in coda un vago rumore di qualcosa che tentennava sopra la sua testa. Deve essere la campana, pensò. S’inerpicò un poco, scalando il muro con le mani e con i piedi a frugare sui sassi spioventi. Gli occhi si abituarono lentamente all’oscurità. Raggelò. A un paio di metri da lui, incastrato tra le possenti travi che un tempo avevano sostenuto il tetto, c’era una bomba d’aereo inesplosa. Erano passati quasi sessant’anni ed era ancora lì, come un animale selvatico imprigionato nella sua trappola mortale. Salì ancora, incuriosito, facendosi leva su alcuni buchi nel muro, fino a quando non le fu vicina. Si distingueva bene la stella americana. E quasi che la bomba avesse patito la sua presenza, sbuffò di polvere rabbiosa cedendo di qualche centimetro come per sfuggirgli. Lui istintivamente l’abbracciò per fermarla. Adesso si trovava proteso nel vuoto, i due piedi a contrasto delle pareti, la bocca piena di polvere di mattone. Sentiva che a ogni secondo la bomba si stava facendo sempre più pesante tra le sue braccia: non sarebbe riuscito a trattenerla a lungo. Si mise a urlare. Urlò così forte che le taccole che avevano fatto nido nel campanile si levarono tutte insieme con un gran frastuono d’ali. Gridò ancora, ripetutamente, con la forza della disperazione. Le braccia tremavano, tutto il corpo tremava sotto quello sforzo. Ma la bomba, tra le assi che gemevano, lo stava trascinando sempre più in giù.
A cinque chilometri di distanza, Alfonso stava cenando con la famiglia; il silenzio della casa era inframmezzato dal rumore del suo cucchiaio di legno che sbatteva ritmico sul fondo della pentola oramai vuota. Alzò la testa, indirizzandola verso il rumore appena filtrato da sotto l’infisso mal chiuso della finestra:
«Il giorno in cui becco quel ragazzino che mi lancia i petardi nel fienile» disse con la bocca ancora piena di minestrone «giuro che gli torco il collo come a una gallina».

19 pensieri su “Un dono del cielo

  1. Beh! in un certo senso il don se l’è cercata, perché la curiosità può essere pericolosa. E’ stato un dono del cielo? Certamente, perché è piovuta lì dal cielo ad aspettare che qualcuno la risvegliasse.
    Certo che il don è stato poco perspicace, perché come ha notato che la chiesa è stata abbandonata di fretta e il campanile bombardato di brutto, doveva immaginare cosa era successo sessant’anni prima.
    Al di là delle mie considerazioni veramente ottima è l’uscita di Alfonso sui fuochi d’artificio. Che botto!

    O.T. Sto preparando il prossimo calendario del Caffè Letterario per marzo. Sempre okay la terza domenica? Ovvero il 17 marzo. Da’ un’occhiata al nuovo sfondo. La foto è mia (anzi di mia figlia) che ho ritagliato e ridotto.

  2. Però quello che mi fa riflettere è come in un attimo si possa perdere tutto e come tante volte si è inconsapevoli che basta un soffio perchè la vita ci sfugga dalle mani…ma nonostante siamo appesi ad un filo dobbiamo saper gustar il presente…perchè come ha detto qualche autore di cui non ricordo il nome “si vive per vivere e non solo per preparsi a vivere”….
    MI FAI PENSARE TROPPO …E INNEGABILE!!!

  3. Ps: al posto di cocciutaccine volevo dire cocciutaggine, ossia testardaggine, che vuol significare incaponimento…(è stato un refuso!!!)
    Ancora ciao…

  4. Sono stata in apnea dalla prima parola all’ultima del racconto e ci sono rimasta…
    Ma potrebbe finire anche senza danni… cioè con un epilogo lieve che smonta il pathos…
    Ad esempio potrebbe ben essere che Don Terenzio stesse sognando e svegliandosi gli viene in mente la paura provata nel sonno …ridendo di sè stesso e della sua cocciutaccine a non smettere di bere qualche bicchierino di vino di troppo a tavola (ma del resto il vino che la famigliola australiana gli regala è irrestistibile…non può farci nulla se esistono dei così buoni sapori in natura …ed è un peccato non saperli gustare!) e così Alfonso può continuare a battagliare con il ragazzino che gli lancia i petardi nel fienile (ma se si apposta bene può scoprire che non è un ragazzino ma la moglie che vuole che smetta di andare a prendere freddo nel fienile…magari con la paura del petardo sta più con lei …eheheh)…
    SPLENDIDO IL TUO STILE CHE MI HA SAPUTO TENERE LEGATA DALLA PRIMA ALL’ULTIMA SILLABA…E ALLA FINE NON RIESCO AD USCIRE DAL RACCONTO SENZA METTERCI DEL MIO…
    ciao

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