La Cella

Quando Peter Roots arrivò per la prima volta sull’Isola dei Quattro Venti era contrariato. Aveva preso quel trasferimento come una punizione e non riusciva a farsene una ragione. Quindici guardie, su uno scoglio sperduto nell’oceano, a far da balia a un solo pericoloso criminale, così gli avevano detto. Una roccaforte a picco sul mare dove i venti gelidi avrebbero sferzato di continuo le vecchie mura a volerle cancellare dall’orizzonte. Ma poi pian piano ci si abituò. I compagni non erano poi tanto male e il fatto di vivere così lontano dalla terraferma consentiva al distaccamento di godere di una certa autonomia, anche se il capoposto, il capitano Frank Huxley, era una vera carogna. Peter tornava sulla terraferma una volta ogni due mesi, ma la paga era davvero ottima e quel lavoro, dopo tutto, non avrebbe dovuto farlo per tutta la vita. I primi tempi erano stati però duri. Essendo il più giovane gli era capitata la garitta Nord, la peggiore quanto a clima. Se il mare infuriava, dopo pochi minuti ci si inzuppava completamente anche se il mare non lo si vedeva neppure. Sbatteva testardo sugli scogli scuri laggiù in fondo alla gola e gli spruzzi risalivano fino alla cima come un ascensore in cui avessero installato una doccia. Gli albatros andavano e venivano inquieti, con un frastuono assordante, e se faceva freddo e c’era poco da mangiare, c’era il caso che ti venissero addosso a rubarti la gavetta con il cibo dentro. Ed era anche il punto, quello, da dove si sentiva meglio il prigioniero lamentarsi, anche in piena notte.
«Non si lamenta» gli aveva detto un giorno Horace Torton dandogli il cambio. «Grida la sua rabbia per la perduta libertà.»
«Si può sapere chi è?» gli aveva chiesto.
«C’è chi dice che sia una spia russa della guerra fredda, chi un vecchio gerarca nazista… altri dicono che sia un alieno. Ma che t’importa? Tanto sempre la guardia devi fare…»
Peter dopo un paio d’anni fu trasferito alla garitta Sud, dove il sole indugiava meditabondo qualche ora in più. Poi, dopo un altro anno, era al portone d’ingresso della roccaforte e quindi nell’ufficio a curarsi di moduli da compilare: un locale pieno di spifferi, senza dubbio, ma almeno era al coperto. Da lì, una notte, spinto da un desiderio irrefrenabile, prese il corridoio per la Cella. Voleva saperne di più. Giunto all’unica porta di legno massiccio, indugiò sul da farsi davanti a tutti quei catenacci; dopo un po’ fece scivolare di lato la finestrella di ghisa per vedere dentro. Era tutto buio. Cercò di abituarsi all’assenza di luce.
«È così forte la tua curiosità?» A quella voce calda e prepotente, che non si aspettava nel cuore della notte, Peter, di primo istinto, si ritrasse. «Non andar via» proseguì «non è me che devi temere. Tu… tu sei Peter, vero?»
«Come fai a saperlo?»
Il prigioniero rise. «Sei una brava persona. Hai 42 anni, vieni da Milwaukee, hai una moglie che ti ama di nome Claire e un ragazzino vispo di otto che si chiama Tom…»
«È il capoposto a darti queste informazioni?» chiese lui duro.
Ci fu silenzio, poi il prigioniero proseguì come se gli costasse fatica «…e hai un cancro che ti sta divorando l’intestino. Come a me del resto» e si mise a ridere.
«Mi stai prendendo in giro, vero?» fece Peter dopo un attimo di smarrimento. «Ma chi sei, veramente?»
«Neppure io lo so più.»
«Dimmelo. Io invece lo voglio sapere.»
«Davvero?»
«Sì.»
«Io sono Colui che è, che è stato e che sempre sarà. Il Popolo eletto mi ha atteso per secoli e i cosiddetti cristiani credono che sia già venuto tra loro duemila anni fa. Ma quello era un altro, un semplice profeta. Io invece sono il Messia, quello vero. È per questo che mi avete tenuto qui dentro per tutto questo tempo, per non accettare la buona Novella. Troppo scomoda, troppo rivoluzionaria. È la storia che si ripete. Io sono venuto a salvarvi e voi mi uccidete.»
In quel mentre Peter udì alle sue spalle dei rumori, chiuse lo sportellino e si allontanò di corsa. Quella notte non riuscì a dormire. Le parole del prigioniero gli risuonavano nella testa come un proiettile in una giberna vuota. Al mattino decise di andare a parlare con il capitano Huxley. Voleva incontrare il prigioniero, voleva chiarire. Attese in anticamera una buona mezz’ora. Poi il capoposto uscì dal suo ufficio, di furia. Peter lo intercettò, ponendosi davanti a lui sull’attenti, era deciso a tutto. «Signore, Le chiedo di essere ricevuto…»
«Non ora, Roots, non ora: devo correre in infermeria, il prigioniero è appena spirato.»

14 pensieri su “La Cella

  1. Post interessante e avvincente, scritto benissimo.
    Seguo i tuoi racconti e sono sempre diversi e intriganti.
    Credo che Peter se la sia fatta sotto.
    Complimenti.

    O.T.
    Sto pianificando dicembre per Caffè letterario. Ti ho riservato il 16 dicembre, la solita terza domenica del mese. Se va bene un ok di conferma.

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