Ikkø

Il regista Ikkø Strömvik, maestro del postrealismo svedese, era in crisi. Dopo l’esordio strepitoso che gli aveva assicurato il plauso mondiale con la pellicola Stora berättelser av små kvinnor (Grandi storie di piccole donne) aveva paura di sbagliare. Dal resto alcuni critici aspettavano un suo passo falso, soprattutto quelli che vedevano in lui solo un uomo troppo attempato per fare innovazione. Fu così che quando ebbe per le mani la sceneggiatura del giovane Malin Sörensson capì che avrebbe girato il suo secondo capolavoro. Si trattava della storia tormentata di una donna energica che, forte della sua triste esperienza personale, aveva deciso di sensibilizzare l’opinione pubblica contro l’orribile pratica dell’infibulazione. Ma una delle scene clou era il suicidio del padre all’inizio del film, una scena straziante che avrebbe dato un’impronta autorale a tutto il lavoro. Per renderla realistica, occorreva però, secondo quanto suggeriva Sörensson, che l’attore portasse sullo schermo la realtà, in altre parole, che si suicidasse davvero.
«È una splendida idea» disse il regista titubante «ma chi vuoi che si presti a una cosa del genere?»
«Con la crisi che c’è e il bisogno di danaro?» chiese cinico Sörensson.
E così fu. Si presentarono circa un centinaio di attori. E dopo le prime selezioni, dovute alla caratterizzazione del personaggio, si svolsero i provini: alla fine rimasero in tre. Il migliore era risultato Karl Källvatten.
«Allora Karl, perché lo fai» gli chiese Ikkø il giorno in cui si doveva girare la scena madre. Karl era un uomo sui settant’anni, capelli folti, sguardo intelligente, un sorriso sereno con placidi movimenti degli occhi. La sua figura emanava dolcezza e rassegnazione. «Per la mia famiglia, Maestro. Mia figlia potrà finalmente comprarsi una casa e sposarsi, mio nipote potrà andare all’università e potrò anche aiutare il mio amico Lunqvist per un’operazione agli occhi.»
«Chiamami Ikkø, Karl. E per te, cosa hai pensato di fare per te? La somma in gioco è molto alta…»
Karl assunse l’espressione infantile di chi era stato scoperto. Si guardò le larghe mani e l’anello nuziale. «Sì, hai ragione: potrò far costruire una bella cappella per me e mia moglie. Kate mi è morta l’anno scorso…»
«Grazie per quello che fai, Karl. Sei un eroe» gli disse dandogli una pacca risolutiva sulle spalle e si alzò. «Ti ammiro davvero molto… Dunque sai tutto sulla scena che dobbiamo girare…» gli disse dandogli le spalle. «So che ti sei preparato a fondo, proprio perché potrà essere girata una volta sola.» E, mostrandosi nuovamente a lui: «ti siedi qui alla scrivania, leggi questo documento di tua figlia e decidi di bere un veleno molto potente per farla finita. Non puoi sopportare il disonore che lei, andando contro ogni tradizione familiare, possa scendere in politica con questi ideali. Purtroppo è un veleno atroce, Karl, non ti farà morire subito e avrai spasmi e convulsioni dolorosissime. Sarà terribile, ma filmeremo tutto. D’accordo?»
«D’accordo Ikkø. Senti, è il contratto? Non ho firmato nulla, sai, per i soldi…»
«Contratto? Farò molto di più per te, Karl…» e girandosi verso la telecamera accesa declamò in modo solenne: «Io, Ikkø Strömvik, come da intesa contrattuale, darò mandato alla produzione perché sia immediatamente versata agli eredi di Karl Källvatten la somma pattuita per girare la prossima scena di suicidio in diretta.» Poi rivolgendosi a Karl: «ora è tutto registrato, davanti a decine di testimoni, va bene così?»
«È fantastico, Maestro, grazie, sarà anche un magnifico ricordo per i miei.»
«Dunque se sei pronto, giriamo.» Si sistemò sulla sua sedia, fece aggiustare le luci, fece dare un ultimo ritocco al trucco di Karl e sistemò l’operatore dolly nella posizione corretta. Poi, dopo un improvviso silenzio si sentì: 
«pronti, motore… aaaazione».
Come un attore consumato Karl entra nell’inquadratura da una porta laterale e si siede alla scrivania; alza la cornetta del telefono per fare una chiamata e l’occhio gli cade su un documento. Lo legge. Si mostra disperato. Si copre gli occhi per la vergogna. Poi, in un impeto d’orgoglio, estrae da cassetto chiuso a chiave una boccetta. Si capisce subito dal contesto che è veleno. Lo beve. Di lì a poco il suo viso si trasfigura per il dolore, il corpo si contorce sulla sedia come fosse strangolato da un boa invisibile. Strabuzza gli occhi, la voce è strozzata nel chiedere aiuto, la lingua fuoriesce gonfia dalla bocca e un fiotto di bava bluastra gli sgorga dalle labbra rattrappite dagli spasmi; quindi, dopo diversi interminabili minuti, si accascia esanime sulla scrivania. Ikkø, che assiste a quella scena, rimane senza parole. Era di un realismo assoluto, inarrivabile, un tocco sopraffino. Grande, grandissima prova d’autore.
«Maestro…» lo chiamò dopo qualche attimo il responsabile delle riprese. «Maestro…»
Ikkø era immobile, ancora concentrato su quello che aveva appena visto. Era estasiato. Era semplicemente la forma espressiva perfetta in cui aveva sempre creduto: ed era passata davanti ai suoi occhi.
«Maestro, mi scusi…»
«Che c’è Svånsson?» disse riavendosi, seccato da quella interruzione.
«Non so come dirglielo, Maestro, ma c’era uno spinotto fuori posto. La scena non è stata girata.»
Ikkø si alzò in piedi di scatto, furibondo, gli occhi penetranti come avesse voluto uccidere con quelli. Poi chinò la testa cercando di calmarsi. 
«Non è venuto proprio niente, Svån?»
«Niente, Maestro, mi spiace.»
«Neppure la parte in cui mi impegnavo contrattualmente?»
«Neppure quella.»
«Bene. Allora pulite tutto questo casino e rifacciamo la scena daccapo con un altro attore. E questa volta fate più attenzione, per la miseria.»

11 pensieri su “Ikkø

  1. Chissà perchè ma mi aspettavo, leggendo e arrivando prima della metà, che la scena dell’impegno contrattuale non fosse stata registrata dalle telecamere… very compliments.

  2. Micidiale, anche se mi aspettavo un finale del genere. Cinico com’era Ikke non poteva tenere un atteggiamento diverso.

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