Festa di beneficenza

Avevo acconsentito malvolentieri a dare una mano a don Giorgio per la festa di beneficenza annuale del paese. Non me l’ero però sentita a dir di no a padre Ercole, che me lo aveva chiesto come un favore personale. Così mi ritrovai tra le stradine tortuose e disagevoli di Bigialli, paesino notoriamente abitato da gente scorbutica e asociale. Non mi meravigliai pertanto che, ad una mia bussata, qualcuno, da dietro la porta, mi sbraitasse:

«Vada via, qui non c’è nessuno!»

«Lei almeno c’è» risposi io prontamente. La mia logica dovette sembrare ineccepibile perché l’uomo, sempre senza aprire, mi abbaiò ancora:

«Vada via lo stesso, non sono io quello che cerca!»

«Ma io non l’ho detto chi sto cercando!» Poi mi resi conto che se avessi continuato su quel tono non avrei combinato nulla. Cambiai registro: «Mi spiace disturbarla, ma sono un amico di don Giorgio e padre Ercole. Mi stavo chiedendo se ha qualcosa da darmi per l’annuale festa di beneficenza.»

Per un po’ non si sentì più nulla. Poi risuonò una chiave che girava a fatica nella toppa. Mi apparve quindi, all’altezza della maniglia, un occhio tondo e arrossato che faceva capolino da uno spiraglio della porta.

«È sicuro che lei è un amico di don Giorgio?»

«Certo che lo sono.»

«Allora venga.» La porta si spalancò e l’uomo, alto non più di un metro e mezzo, mi diede subito le spalle. Un tanfo terribile investì le mie narici e un moto di disgusto mi rovesciò lo stomaco. Non riuscii a muovermi. L’uomo, dalla barba grossolanamente tagliata e dai capelli arruffati tanto da assomigliare a Bertoldo, si fermò sul primo gradino della scala vociandomi contro:

«Insomma, vuole entrare, sì o no?»

Mi feci forza e lo seguì. Più salivo e più l’odore di marcio indefinibile mi attanagliava la gola. Giunti al secondo piano l’uomo prese a montare su di un’altra scala, più piccola e sghemba, fino a quando non arrivò in soffitta dove, nella penombra polverosa e malsana, potei distinguere delle stie per galline e conigli. Nel frattempo la mia attenzione era stata attratta da due voluminosi sacchi neri della spazzatura tenuti fermi da legacci e buttati da un lato. Si sarebbero dette delle coperte o dei tappeti.

«Sono due cadaveri» mi sibilò lui mollandomi in mano un coniglio che si divincolava. «Non è che, andando giù, mi aiuterebbe a portarli in giardino, vero? Da solo non ce la faccio.»

Io presi la bestiola per le orecchie, in silenzio; forse l’uomo si aspettava da me una risposta perché, quando mi limitai a scendere senza dir nulla, fece una faccia strana come se avesse voluto compatirmi. Avevo bisogno invece  di uscire di lì il più presto possibile per riprendere a respirare. Mi accompagnò alla porta con il suo passo a saltelli e, nell’accomiatarmi, mi respirò dietro:

«Guardi che scherzavo… non sono due cadaveri.»

L’uomo aveva messo in mostra, nel sorridere, solo qualche dente sul davanti e neppure bianco. E io stavo già per montare in macchina, chiedendomi come avrei potuto guidare con un coniglio vivo tra i piedi, quando l’uomo, nello sbattere la porta di casa, borbottò serio:

«Non sono due cadaveri … il cadavere infatti è uno solo.»

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