La preda

Hank si mise in piedi sulle staffe. Stava cercando un varco migliore: in quel punto il suo cavallo stava sprofondando nella neve; proprio lì dove le orme dell’orso, che stava seguendo da otto lune, ed ora fresche, prendevano la direzione della foresta. Doveva allontanarsi da quel posto, però: il suo cavallo si sarebbe potuto facilmente spezzare una zampa, ma doveva anche rimanere sopravvento o il suo odore lo avrebbe tradito. Si risiedette sulla sua sella di cuoio resa morbida da innumerevoli cavalcate sotto il cielo eterno dello Utah. Respirò a pieni polmoni in quell’aria fina resa azzurra dai raggi obliqui di un sole stanco, troppo debole per vincere la crosta croccante della neve. Poi prese la decisione e, con uno strattone risoluto alle redini, estrasse dalla buca gli zoccoli bruniti del suo rocky mountain. Hank si mosse verso la cima della collina, plastico, elegante, senza far rumore. Cavallo e cavaliere erano un’ombra unica contro le sequoie dal tronco color nocciola. Fece una ventina di metri, poi piegò a sud. Era lontano, adesso, dalle tracce del suo orso, ma il suo istinto di cacciatore gli suggeriva che non doveva poi essere così lontano. Rimase immobile. Respirava appena mentre spingeva lo sguardo a scandagliare il pianoro che si apriva innanzi a lui tra gli alberi. Passò mezz’ora, forse più. Preannunciata dal volo di alcuni merli, una massa indistinta si staccò dal profondo del fogliame scuro. Era il suo grizzly. La ricompensa per tutti quei giorni di attesa paziente, la sua preda, la risposta alla sua indole di caccia, una risposta di sangue che solo chi ha nel cuore l’urlo della sopravvivenza può capire. Slacciò la custodia adagiata sul fianco del cavallo e tirò a sé il calcio della carabina. Caricò il fucile portandolo in linea con l’occhio buono. Il cavallo si fece di granito, una roccia in più tra le Montagne Awatawachi. L’aria si svuotò di sentimenti. Non era più l’ora di raccontare storie al calore rubato di un frettoloso falò, né il momento di aver paura di fallire. L’orso era lì, dietro al suo mirino, si grattava ignaro ad un tronco abbattuto, alzava le zampe, goduto, come in un segno paradossale di resa. Hank accarezzò il grilletto. Un colpo, un colpo solo. Pareva un tuono tra i nidi dei rapaci e le corna dei wapiti.
E il sangue di Hank schizzò rapido sulla coltre dai riflessi bluette come l’aspersione di un battesimo innocente. Una forza indescrivibile gli aveva aperto un foro nel cranio che ricordava la tana a galleria del picchio cinerino: lo aveva stramazzato sotto gli occhi stupiti del suo stallone.
Il ranger, con un gesto secco, fece scivolare il proprio fucile dentro la fondina ubbidiente senza neppure guardarla. Poi raccolse in una sola mano le redini del cavallo.
«Ti ho fottuto stavolta, bracconiere di merda!» mormorò tra sé e sé.
E spronò via verso la strada del ritorno.

7 pensieri su “La preda

  1. Il finale che non ti aspetti, come in tutti i migliori racconti..ottimo. Peccato solo per la crudezza dei pensieri del ranger che si oppone violentemente ad uno scenario descritto magnificamente (mi fa pensare a paesaggi ancora incontaminati), facendoci ricadere immediatamente nella cruda realtà delle cose.. complimenti! (anche al ranger)

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