Casa dolce casa

Una cosa che sicuramente mi sfugge è il motivo per il quale il mio vicino – quello della villetta accanto alla mia, il cui bow-window in pietra si vede dall’abbaino della mia mansarda – possa buttar via sempre così poca spazzatura. Io trascino delle buste della spesa colmi di rifiuti e lui porta al cassonetto un pacchettino, chiuso con un fiocchetto argenteo, che sembra appena sfornato dalla rosticceria. E il bello è che la sua famiglia è pure composta da quattro persone. Per cui delle due l’una: o io sono uno sprecone consumista o lui ricicla i rifiuti nel sugo della domenica.
Comunque, lo scorso lunedì, stavo uscendo con la mia brava sporta della pattumiera, che a fatica ero riuscito a chiudere, quando lungo il vialetto che mi separa dal cassone della nettezza – saranno una cinquantina di metri mal contati – si mette a piovere a dirotto. Piuttosto che tornare sui miei passi, decido di fare una corsa per liberarmi dell’olezzante involucro (per via del mio signor Gatto). Una volta spalancato il coperchio, ero lì lì per gettare la busta quando in fondo al cassone vedo due occhi spalancati che mi squadrano in modo severo e ostile: era un barbone.
«E lei che ci fa qui?» dico impaurito.
«Chiuda!» ribatte lui facendosi schermo con una mano «non vede che piove?»
«Mi scusi» faccio io mollando la pressione del piede sulla barra d’apertura. Il coperchio si richiude pesantemente rimandandomi un fetore di marcio e stantio. Rimango interdetto sotto gli scrosci battenti che mi stavano ormai infradiciando anche la camicia. Quindi mi faccio coraggio e busso sulla lamiera:
«Guardi che lei non può stare qui.»
«Ah no?» risponde lui con una voce sfottente che rimbombava nella cassone vuoto «lei ce l’ha una casa?»
«Sì.»
«E anch’io.»
«Ma questo è un cassonetto dei rifiuti!» obbietto alzando il volume della voce per superare il frastuono della pioggia che rimbalzava sul metallo «dove butto la mia spazzatura?»
«Dove crede lei. Io vengo forse a casa sua a disfarmi della mia rumenta?» mi rimbecca lui con una logica ineccepibile.
Non sapendo cosa ribattere, faccio per andare a casa con la mia sporta di rifiuti oramai zuppi. Poi ci ripenso e torno indietro. Ribusso.
«Che c’è ancora?» fa l’inquilino scocciato.
«Ha bisogno di qualcosa?» gli domando con l’animo pervaso, tutto ad un tratto, da un malinteso senso di solidarietà sociale.
Lui se ne sta per un po’ un silenzio poi bofonchia:
«Un caffè non ci starebbe male. Però passi più tardi, grazie.»

18 pensieri su “Casa dolce casa

  1. non ho il tempo di leggere tutto il tuo blog essendo collegata in questi giorni da un internet point, ma ho letto gli ultimi post e sono… belli!!! =) ti ho linkato… ma ti ho segnato come “briciola nel latte”.. va bene o deve essere tuttattaccato? =)… bacèttino, *~eli~*

  2. Ma sai che mi sono rivisto nelle tue FAQ??? Porcamiseria…con qualche differenza, però: vivo in una megalopoli, scrivo solo dalle 23 in poi, intervengo sui commenti…Ma sogno anch’io di vivere a Poggiobrusco…Anzi, sai che ti dico? Ti link, và. Notte, giusec.

  3. Posso ? 🙂

    Notturno

    Alle due di mattina sei sobrio abbastanza per ricordarti dove hai lasciato i calzini ?
    E, inoltre, credi che ti siano di una qualche utilità per proteggerti dal freddo che incontrerai nel tragitto verso la cucina ?
    Cosi, carponi, tenti di trovarli sul comodino, o magari sul pavimento, forse coperti dai fogli del giornale che leggi prima di addormentarti.
    Una ricerca vana. Tu non sei del tutto sveglio, mentre non ti dici certo di essere ancora addormentato.
    Stai in quella sottilissima parentesi che ti colloca, tuo malgrado,
    fra le due condizioni. E non l’avverti, questo e’ certo, come una regione amica, anche se a tutta vista potrebbe sembrarti simpatica. Non hai le certezze.
    Forse non le cerchi nemmeno. Hai, con il passare dei secondi, due impellenze che ti si impongono, avvicinandosi come un tronco ai bordi di una strada verso il quale stai andando a velocita’ piuttosto elevata.
    Fa freddo. Si stava meglio sotto le coperte, indubbio. Cio’ nonostante desisti e decidi di affrontare, in ordine random, entrambe le incombenze. Raggiungi al buio il bagno, alzi la tavoletta e il rumore del liquido che piove nel vaso taglia il silenzio della casa.
    Fai le cose in grande: tiri anche lo sciacquone, con l’autorevolezza del gesto di un direttore d’orchestra – PUSH – che chiama tutti ad uno stacco corale. Sospinto da questo baccano infernale inizi la discesa dei gradini che supponi ti conduca in cucina, giù dabasso si, come hai sentito o letto da qualche parte e deve esserti tanto piaciuto.
    Dabasso (oh yes) fa davvero freddo.
    D’improvviso giudichi ottimistica la previsione che t’ha portato a evitare di coprirti. Ma sei fatto cosi, quando cominci una cosa, hai bisogno di portarla fino in fondo per accorgerti quanto sei scemo. Cullato da siffatte riflessioni, non ti sfugge un briciolo d’ironia nel pensare, stante la temperatura, all’utilita’ di tenere acceso il frigo semivuoto che, convieni senza sforzo, rappresenta in modo fedele il tuo attuale stato mentale.
    Un pensiero veloce come un tram, ti transita, mentre meccanicamente lo apri, “tutto questo bisogno di dolce non sara’ l’indizio di una qualche patologia ?” Superi te stesso arrivando a sentire l’urgenza di annotare, su un post-it che appiccichi allo sportello del frigo, che hai bisogno di fugare questi dubbi, facendoti prescrivere dal tuo amico medico pazzo le analisi del sangue, cosi, per scaramanzia.
    Ti siedi a tavola, ingombra di molliche che pigramente hai lasciato li dopo la frugale cena della sera prima. Apri il barattolo della nutella e ti spari due cucchiaiate “a freddo”, mentre cerchi le fette biscottate. Il latte che hai preso dal frigo ha delle stalattiti sulla confezione che, vista la temperatura, pensano bene di prendersela comoda prima di iniziare a sciogliersi.
    Fai tutto questo mentre la tua testa indugia ancora, o parzialmente, nel cinema dei tuoi sogni.
    Pensi cosi a qualcosa di sbagliato, che hai avvertito in modo indistinto, fino a pochi minuti prima, segui delle veloci considerazioni tristi dettate da una consapevolezza della situazione in cui ti trovi.

    Infine, credi di passare alla storia lanciando da circa 10 metri, nel corridoio e al buio, una tazzina all’indirizzo di una sagoma che definiresti un topo. Lo manchi, se mai fosse stato realmente li, cogliendo invece la cornice di conchiglie pazientemente creata da tua figlia come portaritratto, vuoto, per festeggiare
    qualcosa, spargendone allegramente le schegge “all around”. Refrattario anche all’angoscia ti affretti a ricordare, come autocompiacimento, che le hai viste in offerta in qualche grande magazzino piu’ o meno simili qualche giorno fa. Confidi nell’apprezzamento del gesto, da parte sua, topi o non topi.
    L’ultima volta che ne hai steso uno, mentre stavi pulendo la cantina, loro territorio indisturbato per anni, tua figlia ha pianto un bel po per via del fatto che si era accorta che con la scopa gli avevi rotto anche una zampina, che ciondolava inanimata, dal resto del corpo grigio, peloso e acciaccato dai colpi andati a segno.
    La vita’ e’ dura, ti vien fatto di dire, mentre spegni la sigaretta letale, quella delle due e trentaquattro, sotto un rivolo d’acqua del rubinetto, perennemente gocciolante.
    Emetti un ruttino e ti riavvi, mesto, sulle scale. Non tralasci di spegnere le luci, al tuo passaggio, e di inserire nuovamente l’antifurto. Domani e’ un altro giorno, ti dici, mentre tenti, come un calco d’archeologia, di ritrovare la posizione di prima nel letto, alla vana ricerca di calore non ancora del tutto svanito.

    15.11.03
    roma

    cletus a.a.

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