In garage

Era stanco, ma aiutò ugualmente la moglie e la figlia a portare le valigie fino al terzo piano. Ogni volta che si ritornava dalla campagna, dove si era passata tutta l’estate, era sempre lo stesso rito: ogni anno, però, era sempre più faticoso.
Nel Seicento non avevano neppure pensato a far una tromba delle scale in quel palazzo, là cioè dove, qualche secolo più tardi, avrebbero potuto anche installare un ascensore. C’erano solo quelle maledette scale a piccozza che costringevano a tener le braccia sollevate se si volevano portar su dei pesi.
Erano quindici anni che tutto questo accadeva. Finito il trasbordo, lui poi, come tutte le altre volte, sarebbe sceso per poter portare la macchina in garage. Sul marciapiede non poteva certo rimanere: l’indomani il carro attrezzi se la sarebbe portata a spasso per la città.
«Ma stai bene caro?»
«Me lo hai già domandato tre volte negli ultimi dieci minuti» rispose lui seccato.
«E’ che hai una faccia così pallida.»
Poi la moglie e la figlia entrarono. C’era da accudire il gatto, aprire le finestre, controllare la posta che intasava la casella. Le solite cose insomma.
«Beh… allora io vado» disse lui con una voce che non gli sembrò neppure la sua.
La moglie non rispose. Non rispondeva mai in questi casi. Ma lui non ripartì subito. Si appoggiò alla porta aperta. Si portò la mano alla testa come per sincerarsi che ce l’avesse ancora. Poi si guardò allo specchio: per un attimo non si riconobbe neanche e quasi si spaventò pensando che fosse entrato qualcuno in casa.
Chiuse la porta dietro di sé e scivolò giù per le scale barcollando, come se gli fosse rimasto impigliato alla schiena il suo appartamento. Il piede che scendeva indovinava all’ultimo istante lo scalino successivo e le ginocchia si piegavano come appartenessero ad un automa. In strada guardò la macchina. La sua. Se l’aveva parcheggiata lì doveva essere la sua. La mise in moto e partì. Svoltò a sinistra e poi a destra. Andò in fondo alla via, poi prese la seconda a sinistra.
Dopo mezz’ora era lì, piantato davanti al citofono di casa. Suonò.
«Cara?»
«Sei tu? Cosa è successo? Perché ci hai messo così tanto?» chiese lei allarmata.
«Niente cara. Non ti arrabbiare…»
«Non mi arrabbio, cosa c’è? Hai dimenticato le chiavi di casa? Non ti senti bene?»
«No… no… senti, ma dov’è che abbiamo il nostro garage?»

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