Made in Japan

 

L’avevo già notato quando era disceso dal pullman turistico che aveva vomitato una miriade di giapponesini sulla piazzetta di Lughi. E l’avevo notato non tanto perché aveva una camicia ampiae lunga con la Venere del Botticelli stampata davanti e dietro, ma perché era il più vispo di tutti e non stava mai fermo. Saltellava da ogni parte con la sua macchina fotografica sparando potenti flashate un po’ dappertutto. Ritraeva i compagni di viaggio, un piccione pasciuto che se andava a spasso per la piazzetta, un vecchietto che transitava cautamente appoggiandosi al suo bastone. Sorrideva e scattava, scattava e sorrideva. La sua fotocamera mi ricordava le pistole di John Wayneche sparavano in continuazione senza scaricarsi mai.
Con un’agilità felina, l’uomo s’inerpicò persino sopra al piedistallo della statua del Poggi Perti per fare istantanee a 360 gradi. Probabilmente fotografò anche me che, comodamente seduto ad un tavolino del Bar del Cinghiale, mi stavo bevendo il mio ‘cucciolo’.
Poi, come avesse una sola anima, il gruppo si spostò verso la scalinata di San Properzio. Con tutta probabilità era intenzione dell’allegra comitiva visitare la chiesa, attrattiva principale della zona, insieme alla Pieve di Punta Moreno, dei turisti stranieri.
Poco prima di salire gli scalini, una connazionale, suppergiù dell’età del giapponesino botticelliano, s’avvicinò a lui dicendogli qualcosa. Stava leggermente china la donna mentre parlava, ma dovette essere qualcosa di risolutivo e irrevocabile perché lui, a quelle parole, rimase perplesso, tanto da grattarsi vistosamente la testa e levarsi di dosso, subito dopo, tracolla e macchina per riporle ordinatamente nello zainetto. Il suo viso ero imbronciato come se avesse subito un’ingiustizia.
Il gruppo si avviò quindi alla chiesa in modo compatto e in silenzio come solo i gruppi dei giapponesi sanno fare. Il fotografo rimase però per ultimo e quando tutti gli altri già erano spariti all’interno della cattedrale lui si arrestò rimanendone fuori. Rapido, tirò giù lo zainetto e, ripresa la macchina, ricominciò a fotografare freneticamente la facciata, le nicchie esterne, le statue e il portone principale. Sembrava lui stesso un dispositivo automatico.
Con la coda dell’occhio vide quindi una coppietta che, dietro alla statua del Cristo Redentore, appollaiata su di un gradino, si stava sbaciucchiando di sommo gusto. Il giapponese, quatto quatto, arrivò vicino a loro e iniziò a lavorare alacremente di flash. L’uomo, sorpreso, si scostò di scatto dalla ragazza guardando storto il giapponese. Poi si alzò con noncuranza, sorridendo perfino alla sua campagna e, arrivato a un metro dal giapponese, gli mollò uno schiaffone così forte che lo fece volare in mezzo al sagrato. Ma mentre il corpo del malcapitato prendeva una direzione, la fotocamera ne aveva presa un’altra. Dopo una larga parabola colpì infatti lo spigolo di un gradino della scalinata per poi fare tutti i rimanenti a ruzzoloni. Il giapponese rimase a terra per qualche minuto. Sembrava ancora più piccolo rannicchiato com’era. Quando si riebbe, massaggiandosi la guancia e la mascella, senza neppure guardare l’energumeno che aveva ripreso a impastare saliva con la sua bella, scese le scale con il passo del condannato a morte. Lo sguardo era fisso sulla macchina fotografica che non dava segni di vita. Nell’urto si era aperta e il processore e i dispositivi di allineamento e di autofocus fuoriuscivano, come le interiora di un’animale spiaccicato da una vettura. Il teleobbiettivo ero tutto storto e in parte era rientrato, il puntatore elettronico era addirittura spaccato in due. Giunto al cospetto della macchina l’uomo s’inginocchiò vicino a lei prendendone in mano delicatamente i resti. Sembrava volesse rianimarla. Accarezzava la memoria digitale come per sentire al suo interno lo spessore delle foto andate perdute per sempre. Rimase così immobile, con quella bestiola di ferro e di vetro appena spirata in mano, con la testa bassa e i capelli arruffati dal vento. Era assorto e si sarebbe detto che dicesse una preghiera. Forse pensava a dove avrebbe potuto seppellirla.
Sentitosi toccare su di una spalla, l’uomo sussultò pensando che fosse ancora il giovinastro. Era invece quella signora che prima aveva parlato con lui. Evidentemente era uscita dalla chiesa avendo notato che lui non vi era entrato. Sempre in ginocchioni, l’uomo le spiegò ogni cosa accompagnandosi con gesti inequivocabili che ripercorrevano tutta la sua disavventura. Indicò anche il ragazzotto che gliele aveva suonate e che era ora intento ad esplorare con le mani cosa la signorina nascondesse sotto la gonna.
La connazionale, mentre l’altro raccontava, giocava con una mano tra i suoi capelli. Ero carezze affettuose, di consolazione, ma anche di rimprovero per un ‘te l’avevo detto io’ che non fu pronunciato ma che era nell’aria.
L’uomo allora si alzò per riporre religiosamente i resti della macchina nello zaino. Nel frattempo era ritornato tutto il gruppo che non si era accorto di nulla. Sul pullman risalì prima il fotografo che si massaggiava ancora la guancia, poi la donna e quindi, uno dopo l’altro, il resto della comitiva.
Ad un certo punto al fotografo si avvicinò un altro giapponese vestito di tutto punto come se fosse appena uscito da una riunione manageriale. Tra loro iniziò una discussione. O meglio il giapponese manager stava parlando in modo autoritario all’altro che aveva il capo chino. Più il manager parlava più si accalorava, più l’altro abbassava la testa. Poi, ad un certo punto, il fotografo tirò fuori dallo zainetto i resti della fotocamera digitale. Il manager li prese, li rigirò tra le mani e poi li tirò in faccia al fotografo. Non contento, iniziò quindi a spingerlo con violenza. Lo spinse più volte e lungo tutto il corridoio del pullman fino a quando non fu riverso sui sedili che si trovano in fondo al veicolo. Era chiaro che la macchina fotografica che si era rotta era del manager che stava dimostrando con veemenza tutto il suo disappunto. Vidi anche alcuni connazionali, quelli che non erano impegnati a ridere a crepapelle, che stavano cercavano, senza molta convinzione per la verità, di fermare il manager che infieriva sul fotografo.
Poi il pullman si mosse e, lentamente, caracollando, sparì dalla mia vista.

10 pensieri su “Made in Japan

  1. Briciola, tutto bene? è da due giorni che non scrivi racconti… mi sto preoccupando per te e anche per me che mi hai messa in crisi di astinenza e vado controllando il tuo blog in continuazione!! 😛 Un abbraccio Taurie

  2. All’inizio leggendoti stavo ridendo…poi via via, mi sono rattristata per quel povero giapponese..
    Tornerò sicuramente a leggerti, scrivi molto bene…grazie per essere passato da me…
    Ti lascio un sorriso e l’augurio di una dolce giornata :o)

  3. In questo caso può esserci un ritono… ma alle mie condizioni… non ho più voglia di farmi prendere in giro.. e lo dico con amarezza purtroppo.. non con orgoglio…Sob
    Chissà al massimo farò un mese la pendolare…Lo vorrei.. ma ripeto, alle mie condizioni…
    Ciao

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