Asereje, again

 

Mi ero fermato a cena a casa di ‘Gi a Lughi. Verso le 19 e 30 volevo tornarmene indietro, ma quando lui ha tirato fuori i suoi pomodorini piccanti sottolio, ripieni di acciughe portoghesi, non ho saputo resistere. E mi sono arreso alle piacevolezze della cucina di casa Moravia.
Avevamo passato una bella serata, insieme, come sempre del resto. Si era riso, scherzato, parlando di tutto e di niente. ‘Gi si era pure scatenato nel suo repertorio di barzellette senza capo, né coda. Una serata tranquilla, piena di cose buone.
Ero alla grappa di pere, quello della signora Lucia della pizzeria “Appena un filo d’olio” di Castelmoreno, quando mi venne in mente di raccontare ciò che mi aveva scritto qualche giorno prima il mio amico Browser, sulla canzone Asereje e sul suo significato occulto di inno al Diavolo.
Ma invece di destare interesse, sia ‘Gi che sua moglie Celeste, si rannuvolarono di colpo, come se avessi dato loro un paio di schiaffi.
“Non bisogna scherzare su queste cose…” mi disse Celeste, seria, facendosi il segno della croce. “Il nome del Maligno non bisognerebbe mai farlo, soprattutto in una casa!”
‘Gi non mi guardava. Stava martirizzando un pezzo di pane avanzato e con la mollica faceva tante palline tutte uguali posizionandole, con ordine, davanti a sé. In un attimo capii che avevo rovinato la serata. Ero stupito per quella reazione inaspettata e mi scusai, più volte, cercando di rimediare, rendendomi però anche conto che non c’era più niente da fare: quella cena, ormai, era finita così.
Mi ritrovai in strada, un po’ confuso. Faceva freschino, segno quello che si stava alzando la tramontana come avevano anticipato ‘quelli delle previsioni del tempo’.
Cercai le chiavi della macchina nel giubbotto e, tirandomi su il bavero attorno al collo, mi diressi verso la piazzetta: avevo parcheggiato lì. Appena mi mossi dal portone, subito avvertii però la sgradevole sensazione di essere seguito. Anzi, cominciavo a sentire dietro a me uno scalpiccìo, che non era di scarpe: sembravano quasi degli zoccoli. Mi parve molto strano, perché nessun contadino, all’una di notte, porta a spasso cavalli o capre e, soprattutto, in quel posto.
Allora mi fermai cercando con lo sguardo di vedere se riuscivo a scorgere qualcosa nella semioscurità. Mi veniva quasi da sorridere, perché mi rendevo conto che poteva essere la scena di un film giallo, anche se, nei thriller, il rumore, di solito, è quello di passi. Ma poi, pensai, tutto sommato, che tanta voglia di ridere, vista la situazione particolare, non è che poi ne avessi proprio tanta.
Mi venne istintivo, così, allungare il passo: imboccai la piazzetta dal lato ovest e puntai diritto verso la macchina. Ma lì, sui conci del pavé di quel quadrilatero che sempre mi ha incantato per la sua bellezza, i rumori degli zoccoli mi sembrarono più accentuati. Sarà stata l’eco delle case che facevano da corona, sarà stata la sensazione d’insicurezza che spesso la notte insinua, ma quei colpi secchi me li sentivo addosso, fin dentro alla testa.
Mi girai una seconda volta, di scatto, tanto che percepii vicino al basamento della statua del Poggi Perti come se il buio fosse più spesso, più denso. Era come se da quel punto s’irradiasse una energia solida che mi creava profonda inquietudine e ansia.
Proseguii che quasi correvo. Fino a raggiungere la macchina, sempre con la sensazione di essere braccato da qualche animale ostile. Infilai al volo la chiave nella maniglia e poi nell’accensione. Avviai il motore e accesi le luci. Mi accorsi che stavo facendo tutto in modo concitato, precipitoso, come se stessi scappando. Il cuore mi batteva forte in gola. In quel preciso istante, un forte rumore si abbatté violento, come uno schianto, sul finestrino. Dovetti aver inconsapevolmente urlato, perché gridò anche la persona che era fuori vicino alla mia macchina. Era un metronotte.
“Ha un fanalino rotto!”
“Si grazie, lo sapevo, domani lo riparerò.” Mi immaginai nella penombra dell’interno macchina, alla luce tremolante della pila che il metronotte mi agitava davanti: e mi vidi pallido in volto.
“L’ho spaventata?”
“Non si preoccupi, piuttosto, era per caso lei, poco fa, che camminava alle mie spalle?”
“Perché lei da dove arrivava?”
“Da via Farini…”
“No no, io vengo dalla parte opposta, sono appena uscito dal bar del Cinghiale.”
“Ah, va bene, grazie lo stesso, buonanotte.”
“Buonanotte.”
Inserii la retromarcia. Ma prima di partire accesi l’autoradio.
Stavano suonando Asereje.

11 pensieri su “Asereje, again

  1. Il mio commento è il numero 10, se io non avessi scritto nulla i tuoi ultmi 3 post avrebbero avuto 9 commenti…..se ribalti il 9 diventa 6….se ribalti tutti e tre i 9 diventano 666……..ho ribaltato le cose, forse è meglio così eh?.

    Comunque briciola tutti i buoni cristiani che negano l’esistenza del Maligno (parole di tanti autorevoli cardinali e affini) nega anche l’esistenza di Dio….non badare tanto alla reazione dei tuoi amici.

  2. Parti da una calda atmosfera casalinga, intrisa di buona compagnia e cibo d’antan poi apri un palcoscenico gotico e ci fai entrare in scena a condividere “inquietudine e ansia”. Buona giornata. Percival

Lasciami un tuo pensiero