Elogio dell’errore

Gli errori che si possono commettere nella scrittura sono molteplici e certamente possono segnare un momento di riflessione lungo il personale percorso per l’edificazione del proprio stile. Sbagliare è liberatorio, finanche un gesto provocatorio (o eversivo), un gesto salvifico che rimette in discussione ciò che si crede di sapere e che a volte si vorrebbe imporre agli altri come rispetto delle regole in quanto tali, qualunque esse siano.

D’altra parte tendere in maniera parossistica alla correzione può costituire paradossalmente una forma repressiva, una violenza alla forza confusa e anarchica con cui la fantasia partorisce l’idea. Spingersi in modo tensivo verso il meglio, sovente è perdere o fare a meno di qualcosa che potrebbe davvero arricchire il nostro scritto anche senza rendercene conto ed è sempre e senz’altro una rinuncia.

La correzione è inoltre un arbitrio. È un decidere che qualcosa va emendata solo perché non conforme a un ideale di giustezza che oggi è tale e domani potrebbe cambiare; è un desiderio di rimozione solo perché la parola utilizzata non è omologabile, qui e ora, per essere stata ritenuta non armoniosa in un contesto che sembra respingerla come un anticorpo pericoloso, anche se si tratta di un’armonia astratta in un contesto variabile.

La correzione è persino un gesto autolesionistico perché volto a sbarazzarci di ciò che a ben vedere ci appartiene intimamente promanando da noi stessi per esserci sembrato a suo tempo adatto e consono. Abbiamo illuso quella parola ammantandola di precisione e accuratezza e invece adesso la tradiamo in un attimo di insofferenza bollandola di diversità e scorrettezza. La parola sbagliata non ha nessuna colpa: lei è solo stata scelta e noi la sacrifichiamo con una noncuranza mai pari all’attenzione con cui l’abbiamo prediletta.

Non teniamo così sufficientemente conto che l’errore attinge a una innumerevole quantità di espressioni alternative tutte in astratto possibili, perché vi è un’infinita varietà di modi per sbagliare e probabilmente solo uno o due modi per essere invece corretti.

L’errore si autorinnova, è semplice, spontaneo, stabile nel suo rappresentarsi alla coscienza di chi scrive, è esso stesso espressione e rappresentazione di quella vita che batte e progredisce attorno a noi per tentativi e appunto per errori, perché la verità risiede nel cercarla incessantemente e non nel ritenere di averla trovata in via definitiva.

Diversamente, la correzione è complessa, difficile, frutto di una ricerca e di una ponderata valutazione, di un pensiero maturo che poi maturo non lo è mai abbastanza; è essa medesima il prodotto di un artificio, di una costruzione logica a tavolino, di una fredda decisione per attuare un lucido accostamento.

La parola corretta, a ben vedere, non è poi affatto stabile perché non si ha mai la certezza che sia effettivamente, nonostante tutto, quella corretta; non fa in tempo ad aver preso il posto della precedente parola, prima giudicata altrettanto giusta, che già vacilla. La lettura scorre su di essa, prende la rincorsa da qualche parola prima per terminare a qualche parola dopo ed è già in forse, incerta, insicura di essere conservata. La parola sbagliata è invece già lì sulla carta o sul video, si crogiola nella sua autosufficienza erronea e rimarrebbe in eterno a giustificare la sua presenza.

Diversamente dall’errore che è sempre (prima o poi) riconoscibile spesso in modo anche evidente, la parola giusta si nasconde, sembra irreperibile, introvabile. L’errore è fonte di pacata serenità nella certezza della sua sostituzione; la parola adatta è fonte di ansia, irrequietudine per la difficoltà del suo rinvenimento.

L’errore dovrebbe allora condurci alla resa di fronte alla nostra natura umana, alla nostra connaturata imperfezione: correggere è pur sempre una sfida di orgoglio e finanche di presunzione; basterebbe in fondo prendere coscienza del proprio sbaglio per avvicinarsi alla propria sensibilità esistenziale evitando di inoltrarci nel territorio oscuro dell’inarrivabile perfezione; sarebbe sufficiente limitarsi ad accettarlo, con dignità e rassegnazione, nella consapevolezza della perfettibilità delle cose e del mantenimento nel tempo dei propri margini di miglioramento.
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