Una strana anomalia

Mi alzai con un leggero cerchio alla testa. La sera precedente avevo esagerato con il vino e alla mia età evidentemente non potevo più permettermelo. Mi trascinai in bagno con gli occhi chiusi; il senso di nausea non prometteva nulla di buono. Mi lavai la faccia e i denti. Finalmente ebbi il coraggio di guardarmi allo specchio anche se sentivo i globi oculari gonfi e l’unico desiderio era quello di tornarmene a dormire. Lo specchio mi restituì un viso strano che feci fatica a riconoscere. Più che altro mi sembrava di avere un corpo più minuto, rattrappito, come se durante la notte mi fossi rimpicciolito sotto il caldo delle coperte.
Rovistai nell’armadietto dei medicinali alla ricerca del termometro. In effetti non mi sentivo granché bene. Mi distesi sul divano con il termometro in bocca ripassando confusamente nella mente tutti gli impegni della giornata; ero sicuro che non ce l’avrei fatta a sbrigarne neppure la metà. L’insistente bip bip del termometro mi avvisò che avevo solo una linea di febbre sicché non avrei avuto nessuna scusa per starmene a casa. Ritornai in camera da letto. Mi colpì molto l’odore dolciastro che stagnava nella stanza. Ero un misto di fiori appassiti, di caramello, ma anche di urina e muffa. Spalancai la finestra e mi vestii. Non ci volevo pensare più. Sarebbe stato il ritmo del lavoro a farmi dimenticare come mi sentivo in quel momento. La giornata, contrariamente alle aspettative, volò via veloce. Gli impegni fissati, ancorché fosse lunedì, erano davvero tanti, troppi perché mi fermassi a considerare come stessi davvero. Solo alla pausa pranzo, mi accorsi, davanti al solito bancone del solito bar, che non avevo affatto fame, anzi, la sola vista del cibo mi procurava degli strizzoni allo stomaco. Era il mal di testa quello che più mi preoccupava. Il dolore, inizialmente alla tempia destra, si era irradiato a tutto il resto del capo e si era fatto intenso e pulsante. Dovevo avere l’aria sofferente perché chiunque incontrassi sul lavoro, mi chiedeva in modo più o meno interessato che cosa avessi. Per di più, scorgendo di sfuggita la mia immagine riflesso in un vetro, ebbi ancora una volta la sensazione sgradevole della mattina e cioè che il torace, le spalle stessero diventando più piccoli. Ero però anche sicuro che fosse una impressione sbagliata perché né il cappotto, né la giacca, né la camicia, mi andavano larghi. Mi stavo chiedendo che razza di influenza avessi preso.
Quando fui a casa mi sentii ancora più male. Mi misurai la febbre, ma potei solo constatare che era passata del tutto, anche quella linea in più della mattina. Non riuscii a mangiare e mi distesi sul letto dopo aver preso qualche pastiglia per il mal di testa. Sembrava che ci si fosse seduto sopra un elefante. Ma ora mi facevano male anche tutti i denti e parte del collo.
L’indomani fu anche peggio. Anche perché i dolori al capo non mi avevano fatto pressoché dormire. Avevo cercato finanche di alzarmi per distrarmi un po’ nel cuore della notte con la televisione, ma non ero neppure riuscito ad inforcare gli occhiali, tanto doveva essere gonfia la mia faccia. Al mattino, quando finalmente mi guardai allo specchio del bagno, ebbi un sobbalzo: la testa, più che gonfiata, si era grottescamente ingrossata, prendendo una ridicola forma triangolare. Il mento si era ristretto a formare un punto globoso in basso, mentre le guance si erano allargate in modo obliquo e svasato verso l’alto, mentre la fronte e la calotta cranica erano larghe quasi il doppio. Ero mostruoso. Assomigliavo a un extraterrestre se non fosse stato per gli occhi, che erano i miei, acquosi, spenti e a mandorla con il taglio rivolto verso le orecchie. Allungandosi avevano reso difficile mettere a fuoco gli oggetti per cui facevano fatica a vedere anche perché non mi era più possibile inforcare gli occhiali le cui stanghette non riuscivo più neppure a far arrivare alle orecchie.
Mi vestii spaventato e, badando bene a dove mettevo i piedi, mi spinsi fin dal mio medico. L’anticamera era piena di gente. Annusai l’aria: c’era lo stesso odore di fiori consunti, urina e caramello che avevo avvertito la mattina prima nella mia camera da letto. Trovai quell’assonanza preoccupante sicché mi accomodai meditabondo sull’unica sedia libera che c’era, accanto all’uscita. Ero immerso nei miei pensieri, chiedendomi con quale coraggio mi sarei potuto presentare in ufficio conciato in quel modo, poi qualcuno alla mia destra mi chiese:
«Quando ha cominciato a sentirsi male?»
Era il mio vicino di sedia. Lo vedevo male senza occhiali. Lui dovette averlo capito perché mi si avvicinò e ripeté:
«Le ho chiesto quando ha sentito i primi sintomi…»
Mi accorsi che l’uomo aveva una testa esattamente come la mia. Il cappello che aveva in testa era ridicolo perché appariva piccolissimo in mezzo a quella fronte ampia. Non aveva perso però il sorriso ed aveva uno sguardo di pacata rassegnazione.
«Ieri…» dissi «… ieri mattina, è iniziato tutto ieri, anche se sembra passato molto più tempo.» Mi accorsi, volgendomi attorno, che anche tutte le altre persone presenti in quella stanza avevano la stessa mia goffa anomalia. Sembrava un raduno di alieni che avessero perso l’astronave e si fossero ritrovati per decidere il da farsi.
«A me è iniziato solo un paio d’ore fa» mi rispose il mio interlocutore tranquillo con un altro dei suoi sorrisi sbilenchi che gli attraversava la faccia facendo intravedere la fuga posteriore dei denti «ma sono certo che il nostro medico saprà curarmi.»
In quel preciso momento, quasi fosse stata una risposta, entrò nell’anticamera il dottore. Aveva una faccia pallida e anche lui rigonfia in quel modo buffo che era capitato a me.
«Avanti un altro» disse in modo stentoreo il medico richiudendo subito dopo la porta.
«Ma cosa ci sta succedendo?» fece una ragazza dalla voce incrinata dal pianto.
Un altro signore che le era vicino scosse la testa, cosa che provocò, tanto era grossa, un certo spostamento d’aria.
«Si tratterà di un virus? Ci stiamo ammalando tutti?» chiese l’uomo che mi aveva parlato inizialmente e che, dopo aver visto le condizioni del suo medico, aveva perso di colpo ogni sicurezza in una pronta guarigione.
«No, non tutti» sentenziò uno che mi sembrò vestito da prete.
«In che senso?» domandò la ragazza.
Il prete era imbarazzato. Aveva l’aria di essersi pentito di essersi lasciato sfuggire quella frase.
«Se sa qualcosa, lo dica!» intimò un altro perentorio. «Lei è un uomo del Signore, ci aiuti!»
«Dio c’entra molto poco in tutta questa faccenda. Sono gli Altri, che non lo ammetteranno mai!» rispose ancora evasivo il sacerdote.
«Gli Altri? Gli Altri chi? E cosa non ammetteranno mai?» insistette l’uomo vicino a me prossimo a perdere la pazienza.
«Ammesso che sappia qualcosa, perché mai lui dovrebbe essere informato più di noi?» buttò lì la ragazza con tono di sfida.
Il prete sbuffò. Cavò un largo fazzoletto bianco dalla tasca della tonaca e si asciugò gli angoli della bocca:
«Sono voci sempre più insistenti che circolano in Vaticano è ho modo di credere che purtroppo sia così, non c’è altra spiegazione». Sospirò, prese tempo, poi continuò. «Non c’è modo di sapere quando si è contagiati, almeno nella prima fase della malattia, se non facendo le analisi che da qualche anno sono diventate, come ben sapete, obbligatorie per tutti. Ciascuno di noi dovrebbe fare la batteria di test sangue e urine di fascia ‘A’, ogni mese, ma nessuno lo fa. Chi di voi le ha mai fatte? Ammettetelo!»
Si fece il silenzio nella stanza.
«Ma certo che non le avete fatte, sennò sapreste già la verità e non lo chiedereste a me.»
«Verità? Quale verità?» chiese ansioso uno in fondo allo studio.
«E poi contagiati… contagiati da cosa?» fece un ragazzo la cui testa era così grossa che la teneva appoggiata al muro.
Il prete era diventato nervoso. Sembrava all’improvviso che la sua sedia fosse divenuta irta di chiodi:
«Il fatto che non si sappia di avere la malattia, non facendo le analisi obbligatorie, fa aumentare a dismisura il contagio; ed è il contagio tra individui apparentemente sani è il problema più grande. La malattia sta diventando ingestibile, endemica…»
«E allora?» fece tre o quattro all’unisono.
«E allora gli intelligentoni del Governo hanno pensato bene di immettere nell’acqua una molecola speciale che, una volta ingerita, reagisce con il virus quando presente, facendo sì che, in modo irreversibile, si ingrossi a dismisura la testa. In questo modo, oltre a diventare riconoscibili agli occhi di tutti, diventiamo anche repellenti cosicché nessuno vorrà avere rapporti sessuali con noi. E il risultato profilattico è raggiunto. Solo che il nostro aspetto è irreversibile. Saremo ghettizzati, non potremo più né uscire, né tanto meno andare a lavorare. Nessuno vorrà più avere a che fare con noi.»
«Virus? Che virus avremmo contratto?» chiese la ragazza terrorizzata.
Il prete esaminò con attenzione la sua stessa tonaca all’altezza del braccio rimuovendo un capello inesistente. Quindi guardò negli occhi la ragazza assumendo un tono compunto:
«L’AIDS, mia cara figliola, abbiamo tutti l’AIDS!»

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