Un Natale bellissimo

Armand Douaneaud era felice. Non solo perché aveva dieci anni e sotto l’albero di Natale c’erano già ad aspettarlo tanti regali, ma in quanto quell’anno si trovava dai nonni. I genitori avevano voluto fare per la prima volta un viaggio da soli e Armand era stato mandato in montagna, a Yves-entre-les Pins, sul Massif Central, tra mucche e galline. Amava quel posto, ma amava soprattutto i suoi nonni che erano sempre gentili e non lo assillavano con il riposino pomeridiano o con i compiti o con mille altre incombenze che i bambini detestano. E poi nonno Fernand era un tipo fantastico, sapeva tante cose e tante storie e lo portava con sé nella stalla a mungere le mucche, nel bosco a far legna o a cercar funghi o nel suo laboratorio dove costruiva oggetti in legno e arnesi da lavoro. Molti giocattoli che Armand aveva a casa, a Marsiglia, li aveva fatti il nonno ed erano i suoi preferiti. Diversamente da casa sua, inoltre, quella dei nonni, per Natale, si vestiva a festa. Nonno Fernand tirava fuori dalla cassapanca le luci che ridisegnavano nella notte tutta la sagoma della casa, preparava un grande presepio semovente con le statuine in cirmolo che lui stesso aveva intagliato. Il nonno abbelliva persino la stalla dove ogni mucca, sotto il cartello che indicava il nome, c’era una ghirlanda colorata di fiori secchi e pigne. E poi c’erano i pranzi e le cene che non finivano mai, ricche di cose buone e di dolci che nonna Rosemarie faceva al forno ‘au bois’ apposta per lui.
Una sera all’improvviso nevicò, come Armand aspettava facesse, e se ne stette alla finestra per ore a veder scendere i fiocchi di neve grossi come fazzoletti. A Marsiglia non nevicava mai e spettacoli così poteva solo sognarseli. E poi venne la mattina presto della vigilia, quando il nonno entrò in camera sua.
«Armand, Armand… svegliati!» gli disse scuotendolo nel letto.
«Che c’è, nonno?»
«La nonna non si sente bene, devo portarla giù in paese…» Il bambino, mettendosi seduto, pensava fosse un brutto sogno. «Torniamo per pranzo» gli disse ancora. «La strada è brutta: è nevicato tutta la notte e preferisco tu rimanga qui al caldo. Ho acceso le due stufe, pensa solo a mettere la legna. Non farle spegnere, però, mi raccomando. Non hai paura di rimanere solo, vero, Armand?»
«No, nonno, non ti preoccupare, ci penso io» pensando, chissà perché, a un nuovo gioco.
«Sì, lo so, che posso fidarmi di te: sei il mio ometto preferito» gli fece arruffandogli ancora di più i capelli. «Noi, Douaneaud, siamo gente tosta…» disse lui cambiando voce come fosse un altro a parlare.
«Tostissima, nonno».
Fuori c’era la tormenta, tanto che appena pochi metri dopo che la jeep era partita sparì nel turbine bianco della neve che scendeva furiosa. Il bambino nel vedere le luci rosse inghiottite da quel muro candido, sentì una contrazione alla gola e un brivido lungo la schiena. Ciabattò fino in cucina dove lo aspettava una grossa fetta di torta ancora calda e un bicchiere di latte fresco. Divorò tutto e dopo aver lavato i piatti nell’acqua gelida, si guardò attorno: erano le sette del mattino e non sapeva che fare. Cominciò a esplorare la casa. Non si era mai accorto che fosse così grande. Alcune stanze non le aveva mai viste come quelle al secondo piano dove stavano i nonni. C’era la loro camera da letto ancora in disordine, lo studio con una lampada accesa sul tavolino e un libro aperto sulla poltrona, una piccola biblioteca; al piano ancora superiore, cui si accedeva da una scala a chiocciola, c’erano la mansarda e la soffitta. Da una finestrella vide bene la strada in basso che scendeva vagabonda al paese: si faceva sempre più fatica, per la neve, a distinguerla dal resto della campagna. La distesa imbiancata ovattava ogni suono e il verso stridulo di una taccola gli parve innaturale. Scese a controllare le stufe. Le bocche erano enormi, soprattutto quella della stufa centrale che scaldava mezza casa. Le ceste con i pezzi già tagliati della stessa lunghezza, disposti in modo ordinato e preciso, erano per fortuna stracolme. Si scottò un paio di volte nell’infilare la legna, ma poi piano piano imparò aiutandosi con un guanto da forno. Passarono le ore e arrivò mezzogiorno: dei nonni nessuna notizia e Armand iniziava ad avere fame. Si accorse per la prima volta che in quella casa non c’era il telefono. Pensandoci bene non l’aveva ma visto. Non c’era modo per comunicare con l’esterno neppure con i genitori, anche ad aver saputo come contattarli su una nave da crociera diretta ai Caraibi. Si rese anche conto che in quella zona non conosceva nessuno. L’unico era il vecchio Gaël, ma abitava dall’altra parte della valle e lo vedeva solo d’estate quando andava con il nonno a portare le arnie alla malga est per avere il miele di rododendro. No, non conosceva nessun altro. Lui stava con i nonni e quello era tutto. Si mise a camminare nervoso lungo il corridoio tendendo l’orecchio verso la strada caso mai sentisse la jeep che tornava . Gli arrivava invece solo il frastuono del vento e anche i colpi secchi di un ramo di melo che sferzava con insistenza il vetro della cucina. Aveva anche sentito suoni strani provenire dal piano superiore. Non aveva voluto badarci per non peggiorare la situazione, ma poi si erano fatti insistenti ed era deciso a saperne di più: dopotutto, i nonni potevano essere arrivati e lui magari non se ne era accorto. Ad ogni buon conto prese il bastone da camminata del nonno e se lo portò con sé brandendolo come avrebbe fatto un apache a caccia di un bisonte. Ispezionò ogni stanza e ogni sgabuzzino, ma non c’era nessuno. Si era appena convinto che fosse solo la sua immaginazione quando vide dalla mansarda un barbagianni che continuava a sbattere con gli artigli contro la sua tana pensile sotto la falda del tetto. Si era ostruita per il ghiaccio e il rapace non voleva arrendersi. Prendeva la ricorsa nel cielo livido e poi come una furia si precipitava contro l’apertura. Solo all’ultimo momento apriva le larghe ali per rallentare la corsa posizionando in avanti le sole zampe. Ma il ghiaccio faceva da tappo e ogni colpo rimandava un rumore curioso come di una padella sbattuta contro un termosifone. Avrebbe voluto aiutarlo, ma aveva già abbastanza guai per conto suo. Così Armand scese al pian terreno lasciando per precauzione tutte le luci accese, perché così la casa gli pareva meno vuota e gli dava più coraggio. Alle tre del pomeriggio i morsi della fame non gli davano più pace. Indossò il piumino e stando sotto la veranda raggiunse a fatica il pollaio. Spaventò le galline rifugiate nello loro stie e arraffò tutte le uova che poté; dopo aver spezzato il guscio nella parte in alto, tenendole ben ritte come gli aveva insegnato il nonno, se le bevve a bocca spalancata. I tuorli scivolarono interi nel suo stomaco vuoto come il secchio del pozzo. Se ne stette un po’ lì, seduto, tra le galline uscite dalle stie per controllare incuriosite chi fosse mai quell’intruso. Il bambino assaporava quella sensazione di semipienezza di un liquido che gli si sballottava in su e in giù instabile. Ma la paura sembrava un po’ passata ed era subentrata una calma irragionevole. Certo, pensò, era strano il mondo visto da dentro un pollaio, ma non era meno freddo e inospitale. Guardò per aria e subito i fiocchi di neve gli si appiccarono sulla faccia: avevano un buon sapore, ma la saliva sulle labbra divenne subito una lama ghiacciata tra i denti. Rientrò in casa in fretta, e nella dispensa recuperò un moncone di salame e del pane duro che spezzò con un batticarne; dalla portiere del frigo sfilò una bottiglia con del liquido marroncino all’interno che bevve avidamente: era brodo di bollo rappreso. Ebbe un conato di vomito e sputò: aveva un gusto orribile e il liquido gli aveva impastato la lingua come fosse di fango. Nel frattempo le ceste della legna si stavano svuotando per cui decise di far spegnere quella dello studio e di utilizzare la relativa legna per quella della cucina che avrebbe scaldato la maggior parte delle stanze. Era sicuro che il nonno, se ci fosse stato, gli avrebbe detto di fare così. La sera arrivò presto. Il rumore di una macchina lo fece sussultare. Dall’agitazione fece cadere la sedia su cui si era appollaiato tenendosi i piedi nascondendo la testa; dalla finestra della sala scorse un grosso furgone che dal curvane puntava gli abbaglianti verso casa. Non riusciva a distinguere bene, spense tutte le luci di casa per vedere meglio. Forse la jeep dei nonni aveva avuto un guasto o era finita nella neve alta e non era più ripartita e qualcuno ora li stava riportando a casa. L’incubo era finalmente finito e la festa sarebbe ricominciata. Sorrise soddisfatto: ce l’aveva fatta. ‘Sì, nonno, i Douaneaud sono gente tosta, tostissima. Hai visto che sono il tuo ometto?’ Continuava a ripetersi. Non capiva, però: il furgone era fermo, con il motore sempre acceso. Smorzò solo gli abbaglianti e i fari divennero così bassi rispetto al livello della neve che sparirono quasi del tutto. Forse gli occupanti non scendevano perché stavano aspettando che lui andasse incontro a loro. Forse avevano bisogno di aiuto, erano in difficoltà. Armand si mise nuovamente il piumino precipitandosi sul vialetto: la neve gli arrivò al mento, ma cercò lo stesso di farsi strada con le mani che subito gli diventarono livide per il freddo. Ma poi sentì che il furgone si era messo in movimento per fare manovra: stava tornando indietro, non c’erano dubbi. Il bambino si mise a gridare. Chiamò a squarciagola i nomi di Fernand e Rosemarie. Li chiamò più volte con tutta la disperazione che aveva in corpo. Ma il silenzio della montagna sovrastò ogni cosa e il rumore ormai lontano di quel diesel pareva una voce ostile che gli mormorasse: ‘addio, mio caro, addio’. Tornò in casa, con una strana inquietudine nelle ossa: per la prima volta si sentì abbandonato e completamente solo. Gli venne voglia di piangere, ma si trattenne: non doveva mollare. Riaccese le luci: era anche zuppo d’acqua e tremava dal freddo. Si piazzò davanti alla stufa che caricò con nuova legna. Di lì a poco la tormenta smise: ora era un unico manto di neve sotto la luna piena che lo faceva brillare. Non c’era più traccia del suo passaggio o di quello del furgone, ogni cosa era stata cancellata come non fosse mai accaduta. C’erano sole le orme raminghe di un animale del bosco: uno spettacolo meraviglioso se solo i nonni fossero stati lì con lui. Il silenzio si fece spettrale e il freddo stava ghiacciando la parte superficiale della neve rendendola lucida e croccante.
Verso le venti finì il pane raffermo rimasto, la torta e il latte. Anche la legna era pressoché terminata. La legnaia era dietro casa, una decina di metri più in là verso il bosco, sepolta dalla neve: arrivarci spalando era impensabile. Ma non doveva far spegnere il fuoco, non poteva, ne era ben consapevole. Sapeva che con il gelo della notte la casa, grande com’era, sarebbe diventata una ghiacciaia. Verso le ventidue il fuoco nell’unica stufa rimasta accesa stava languendo. Ci buttò dei giornali, ma durò poco. Rimase un tempo infinito a guardare la fiamma tremula, ormai bassa, incerto sulla decisione da prendere. Scosse la testa, come avesse voluto uscire da quell’incubo che non voleva finire e riparare tutti gli strappi di una realtà inaccettabile. Andò al presepio e afferrò un pastore. Prese anche della paglia che adornava il fondo e una montagnola colorata di carta pesta. Buttò nella stufa prima la carta e la paglia e poi quando il fuoco si riprese gettò a malincuore il pastore. Il legno stagionato fece il suo dovere: prima si annerì facendo fumo e spaccandosi, poi le fiamme l’avvolsero di colpo riprendendo vigore. Il legno secco divampò allegro, in un attimo, ma in breve tempo si consumò. Gettò subito dopo una pecorella paffuta e poi un cammello con l’aria sognante, quindi un ponticello con incorporata una palma e un altro pastore che trasportava a tracolla un agnellino addormentato. E poi via via utilizzò tutti gli altri personaggi. Prima di gettarli tra le fiamme li accarezzava come per dar loro un ultimo saluto. ‘Come sono lisci’, pensò, ‘come sono morbidi al tatto e profumati’. Pensava anche a quanta fatica avesse fatto il nonno e quanti anni ci avesse messo per intagliarli. Ma era sicuro che se lui fosse stato lì gli avrebbe suggerito la stessa cosa. No, non avrebbe permesso all’inverno di impossessarsi della casa, il nonno gliela aveva affidata. Così con determinazione bruciò tutte le statuine, dalla prima all’ultima, compresi il bue e l’asinello. Aveva i lucciconi agli occhi quando da ultimo gettò nel fuoco Giuseppe e Maria. E quando a mezzanotte, a Natale, buttò sulla brace Gesù Bambino, Armand stava piangendo a dirotto. Sì, se lo sentiva: nonostante tutto sarebbe stato un Natale bellissimo.

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